GIOVEDI’ XXXI’ SETTIMANA T.O. 04.11.2021 -SAN CARLO BORROMEO – Luca 15,1-10 “…c’è più gioia in cielo per un peccatore pentito”

… il VECCHIO FARISEO COMMENTA….

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Dal Vangelo secondo Luca 15,1-10

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola «…chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro “…rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Parola del Signore

 

Mediti…AMO

LA VITA E IL PENSIERO DEL SANTO

San Carlo Borromeo nacque nel 1538 nella Rocca dei Borromeo, sul Lago Maggiore, era il secondo figlio del Conte Giberto e, secondo l’uso delle famiglie nobiliari, fu sottoposto a “tonsura” a 12 anni.

Studente brillante a Pavia, venne poi chiamato a Roma, dove venne creato cardinale a 22 anni.

Fondò a Roma un’Accademia secondo l’uso del tempo, detta delle «Notti Vaticane».

Inviato al Concilio di Trento, nel 1563 fu consacrato vescovo e inviato sulla Cattedra di sant’Ambrogio di Milano, una diocesi vastissima che si estendeva su terre lombarde, venete, genovesi e svizzere.

Un territorio che il giovane vescovo visitò in ogni angolo, preoccupato della formazione del clero e delle condizioni dei fedeli.

Fondò seminari, edificò ospedali e ospizi. Utilizzò le ricchezze di famiglia in favore dei poveri. Impose ordine all’interno delle strutture ecclesiastiche, difendendole dalle ingerenze dei potenti locali.

Nell’aprile del 1566, raggiunse Milano, dove iniziò subito la grande opera di riforma secondo il Concilio di Trento. Fu un organizzatore geniale e un lavoratore instancabile tanto che Filippo Neri lo riteneva “… un uomo di ferro”.

Organizzò la sua diocesi in 12 circoscrizioni, curò la revisione della vita della parrocchia obbligando i parroci a tenere i registri di archivio, con le varie attività e associazioni parrocchiali.

Si impegnò molto nella formazione del clero creando il seminario maggiore e minore.

Fu soprattutto instancabile nel visitare le popolazioni affidate alla sua cura pastorale e spirituale, iniziando la sua prima visita nel 1566 subito dopo l’arrivo a Milano.

La sua visita in una parrocchia era preparata spiritualmente con la preghiera e con la predicazione che doveva portare ai Sacramenti.

Il vescovo all’inizio faceva una riunione con i notabili del paese ai quali chiedeva tra l’altro “Come si comportano in chiesa i parrocchiani? Ci sono eretici, usurai, concubini, banditi o criminali? Ci sono seminatori di discordia, parrocchiani che non osservano la Quaresima?… I padri di famiglia educano bene i propri figli? Non c’è lusso esagerato nel vestire da parte degli uomini e delle donne? Se ci sono delle istituzioni di beneficenza e di aiuto sociale, sono ben amministrate?”. E altre domande simili, ma concrete.

Tutto bene quindi nella sua opera di riforma? Non proprio. Incontrò difficoltà e talvolta anche ostilità.

Come nel caso dell’attentato che subì il 26 ottobre 1569 ad opera di quattro frati dell’Ordine degli Umiliati. Uno di questi gli sparò mentre era in preghiera nella sua cappella privata.

Motivo? Il Borromeo voleva riformare quell’ordine religioso ormai decaduto.

Ma le riforme proposte furono viste dagli Umiliati come umiliazioni.

La pallottola gli forò il rocchetto, ma lui rimase illeso miracolosamente ed il popolo lo interpretò come un segno dall’alto della bontà delle sue riforme.

E gli Umiliati, di nome, furono umiliati anche di fatto e per sempre con la loro cancellazione definitiva.

Ma lo spessore della sua personalità di pastore e del suo amore più grande che “dona la vita per i suoi amici”, la mostrò in occasione della peste del 1576.

Assente dalla città perché in visita pastorale, rientrò subito, mentre il governatore spagnolo e il gran cancelliere fuggivano via.

Fece subito testamento sapendo che la peste non aveva riguardo per nessuno, nemmeno per l’alto clero: organizzò l’opera di assistenza, visitò personalmente e coraggiosamente i colpiti dal terribile morbo, aiutò tutti instancabilmente fino al punto da meritarsi un rimprovero dal Papa di Roma.

Nonostante tutta l’attività pastorale, il Borromeo fece quattro viaggi a Roma e quattro a Torino.

Era molto devoto della sacra Sindone. Fu proprio nel 1578 che i duchi di Savoia la portarono a Torino perché al vescovo di Milano, che aveva chiesto di venerarla personalmente, fosse risparmiato il difficile e pericoloso attraversamento delle Alpi (motivo ufficiale), ma anche per difenderla dalle brame dei Francesi (motivo politico).

L’esposizione della reliquia fatta a Torino nel 1978 fu per ricordare questo suo arrivo nella città.

A causa della sua attività pastorale senza sosta, dei frequenti viaggi, delle continue penitenze, la sua salute peggiorò rapidamente. La morte lo colse preparatissimo il 3 novembre del 1584, ed il suo culto si diffuse rapidamente fino alla canonizzazione fatta nel 1610 da Paolo V.

Durante la peste del 1576 assistette personalmente i malati. Appoggiò la nascita di istituti e fondazioni e si dedicò con tutte le forze al ministero episcopale guidato dal suo motto «Humilitas». Morì a 46 anni, consumato dalla malattia il 3 novembre 1584.

È un personaggio centrale del 1500, una delle figure più eminenti, la cui opera, specialmente per Milano, ha superato la forza dell’oblio.

ESAME DEL TESTO EVANGELICO

Di fronte alle critiche dei farisei e degli scribi sul fatto che il Maestro stava a mensa con i peccatori, Gesù racconta le parabole della misericordia, che dicono l’attenzione amorosa e la preoccupazione sincera di un Dio che va in cerca dell’uomo, creatura “a sua immagine” che si è perduto.

Sono immagini di un Dio che non si accontenta di aspettare un ritorno, a volte, difficile e arduo, ma di un Pastore, che è prima un Padre che si muove, che facilita l’incontro, che spiana la strada a chi si è allontanato per propria scelta.

E gioisce e fa festa, per averlo ritrovato. Questo è il senso e il messaggio di speranza che percorre, come una filigrana, tutta la Scrittura Santa.

Dio è come una brava massaia che ha smarrito una moneta e passa il tempo a cercarla finché non la trova e organizza poi una festa, per manifestare la sua gioia.

DIO FA FESTA, DIO CI CERCA, DIO È UN DIO GENEROSO.

Nulla a che vedere col Dio piccino, “a nostra immagine”, che portiamo nel cuore. Perché quest’ultimo, è un Dio dagli orizzonti limitati, come i nostri, e quindi avaro di emozioni, sempre serioso, custode del diritto e della giustizia e giudice implacabile.

Ma il Dio scoperto da Luca NON è così. Come NON È COSÌ il Dio raccontato da Gesù.

Ma dobbiamo anche dire che davvero Gesù ci scandalizza col suo atteggiamento.

Nella logica ebraica, attenta a distinguere le cose sante dalle cose profane, il puro dall’impuro, l’atteggiamento di Gesù era assolutamente incomprensibile: avere a che fare con l’impurità, i peccatori, ad esempio, significa inesorabilmente venire macchiati dall’impurità.

È anche per tale ragione che i farisei evitavano di frequentare i peccatori.

Ma questa idea, tutto sommato, è rimasta intatta anche nella nostra cultura.

Siamo abbastanza convinti che chi va con lo zoppo impara a zoppicare e, ancora oggi, se qualche prete frequenta ambienti non troppo ortodossi storciamo il naso.

MA GESÙ NON ESITA A FREQUENTARE I PECCATORI

Gesù cerca di coinvolgere gli altri riguardo alle sue scelte: cerca di far capire che avere a che fare con i peccatori è un atteggiamento di Dio che cerca la pecora smarrita, la moneta perduta.

Ci vuol far capire che Dio “vede” molto più in là di noi….

DIO VEDE IN OGNI PECCATORE IL SANTO CHE NON È ANCORA,

VEDE BRILLARE LA SCINTILLA CHE GLI HA POSTO NEL CUORE.

Ecco la ragione per cui Dio insiste, accoglie, perdona, cerca.

Egli Ama con una libertà interiore e un rispetto assoluti, senza guardare con pregiudizio chicchessia, senza cedere al compromesso, manifestando l’instancabile volontà salvifica di Dio.

Ecco come ama, colui che chiede di essere amato più della propria amante, più dei propri genitori, più dei propri figli.

Ecco come ama, colui che chiede di farsi due conti in tasca, di abbandonare la prudenza, virtù necessaria nelle cose del mondo ma inutile quando abbiamo a che fare con Dio.

Ecco come ama, colui che pretende di essere più della più grande gioia che un essere umano possa sperimentare.

Ama come il pastore che lascia il gregge e, abbandonando ogni buon senso e ogni senso della misura, si mette a cercare l’unica pecorella smarrita e, dopo averla trovata, non la carica di bastonate (come, al suo posto, farebbe ognuno di noi) irritato per il tempo che ha perso, ma se la carica con AMORE sulle spalle per riportarla all’ovile.

Ama come quella donna che perde una moneta, spazza tutta la casa finché non la ritrova e, alla fine, coinvolge tutte le amiche e le vicine per condividere la gioia di averla ritrovata.

Ecco come ama colui che chiede di essere amato. Ecco come mi ama.

Sono io quella pecora che prende sulle spalle, io quella moneta persa fra le fessure del pavimento in legno. Sono proprio solo io.

Le due parabole di oggi, quindi, ci rivelano il cuore di Dio nei confronti di ogni singolo peccatore: ed ognuno di noi risulta un valore infinito ai suoi occhi…

È pazzesco l’amore di Dio per noi!

Dentro questo AMORE ci “leggiamo” tutta la Pasqua!

Questo AMORE che è un lasciare tutto per andare a cercare ciò che si è perduto!

Tutta la “passione” di Dio si concretizza nella ricerca dell'”uomo perduto”, perché Dio non ha figli da “buttare via”, ognuno è figlio unico, FIGLIO NEL FIGLIO, irripetibile, amato di amore totale.

 

Uno scrittore contemporaneo Charles Péguy (1873-1914), scriveva:

  • “La conversione di un uomo è il compimento di una speranza di Dio.”

Ragioniamoci sopra…

Sia Lodato Gesù, il Cristo!