… il VECCHIO FARISEO COMMENTA…. In illo tempore: dixit Iesus…
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Dal Vangelo secondo MATTEO 24,42-51
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo. Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così! Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni. Ma se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda”, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti». Parola del Signore
Mediti…AMO
Il vangelo di oggi parla della venuta del Signore alla fine dei tempi e ci esorta alla vigilanza.
Ma vivere aspettando con speranza è una virtù che non ci è spontanea né tantomeno facile.
La beatitudine sta proprio NEL SAPER ATTENDERE, NEL DESIDERARE DI ATTENDERE.
La nostra speranza è nella vita del Signore Gesù alla fine dei tempi; però ora qui, anche Gesù si fa presente nella nostra vita, nella semplicità e nella complessità di ogni momento.
È oggi che con la forza del Signore possiamo vivere nel suo Regno.
Sant’Agostino ce lo ricorda con le parole del salmo 32,12: «Beata la nazione il cui Dio è il Signore», affinché possiamo esserne consapevoli, formando parte di questa nazione.
L’attesa non è un semplice stare seduti a guardare l’orizzonte. Ma è innanzitutto una questione di cuore, una questione che coinvolge e avvolge tutta la nostra vita.
L’attesa del Signore che viene, chiede un atteggiamento di cuore CHE TESTIMONIA LA NOSTRA PROFESSIONE DI FEDE, TESTIMONIA IL NOSTRO CREDERE.
Noi attendiamo il Signore se viviamo da figli e dunque da fratelli, non se la facciamo da padroni.
Vivere l’attesa significa cogliere ciò che è bene in quel dato momento per me e per l’altro, e servire a questa dinamica di vita.
Fare ciò che in ogni momento giova al bene: questo è attendere. Farla da padroni, godendosela anziché vivere la beatitudine, chiude la nostra capacità di vedere Colui che passa perché non capaci di attesa.
Non attendere è il corrispettivo del considerarci padroni e del credere di possedere noi stessi, la nostra vita, il nostro lavoro, i nostri beni.
Questo atteggiamento da padrone non apre alla beatitudine ma ci spinge sulla via del servo malvagio che vive l’attesa come ritardo del Signore che viene e che, per questo, mangia e beve ma non serve.
Per noi che ci crediamo padroni e da padroni viviamo, la morte arriva come un ladro, non come dono del nostro Signore che viene a noi.
Vivere in tal modo è non saperlo riconoscere, non saperlo vedere, non sentire la sua presenza. E dire che Lui non c’è o al limite che non è il Dio incarnato ma il Dio lontano.
All’epoca dei primi cristiani, molte persone pensavano che la fine di questo mondo era vicina e che Gesù sarebbe ritornato dopo.
Riguardo al giorno e all’ora della fine del mondo, Gesù aveva detto:
- “Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre!” (Mc 13,32).
La morte arriva imprevedibile per noi, MA AL MOMENTO ESATTO PREVISTO DA DIO. Perché vigilare? Per essere trovati pronti; per non essere esclusi dalla sala delle nozze eterne.
QUESTA IGNORANZA DELL’ORA SI ISCRIVE NELLA NOSTRA NATURA: la nostra vita ci sfugge, siamo un mistero per noi stessi, non ci possediamo, siamo del Signore.
Purtroppo, ce lo conferma Gesù stesso, non ci è dato sapere in alcun modo quando il ladro verrà a rubare nella nostra casa: non conosciamo l’ora della nostra morte.
Tuttavia c’è una prima cosa da notare: noi non siamo padroni della casa; siamo piuttosto servi, o amministratori.
Il problema dunque non è non poter prevedere il momento esatto in cui il ladro verrà. C’è piuttosto un errore a monte: noi non siamo proprietari.
Conseguentemente, un ladro non può derubarci proprio di nulla.
O meglio, se cerchiamo di diventare padroni, la morte certo ci deruberà di quel poco che avremo accumulato.
Saremo allora come quegli amministratori che il padrone al ritorno avrà sorpreso a mangiare, bere ed ubriacarsi: e la punizione sarà il nostro stesso aver sbagliato bersaglio, per cercare di essere stati quello che non siamo.
Qualunque possesso ed accumulo di beni è solo un’illusione: la morte verrà semplicemente a smascherare l’inganno.
Amministratore fidato e prudente è invece colui che compie la volontà del padrone: dare alla sua servitù la razione di cibo a tempo debito.
Dare il pane, dare sé stessi, è la volontà del Padre (Gv 10,17-18): chi agisce, così ha già ricevuto il premio, perché già è Figlio, con lo Spirito dentro di sé (Rm 8,14-17), con il cuore e la vita stessa del Padre (Lc 6,36).
Il Figlio dell’uomo, nell’ora che non conosciamo, verrà: ma allora non sarà un ladro venuto a derubarci di quel poco che avremo avuto l’illusione di accumulare.
Perché il Signore verrà come Sposo a donarci la vita eterna insieme con lui (Mt 25,10).
Vigilare, allora, significa essere pronti, per porsi davanti al Signore sempre presente (solo apparentemente assente) e vivere coerentemente secondo questa fede.
E anche oggi molte persone pensano che la fine del mondo è vicina. Per questo, è bene riflettere sul significato della vigilanza.
La stessa problematica c’era nelle comunità cristiane dei primi secoli.
Molte persone delle comunità dicevano che la fine di questo mondo era vicina e che Gesù sarebbe ritornato.
Alcuni della comunità di Tessalonica in Grecia, appoggiandosi alla predicazione di Paolo, dicevano “Gesù ritornerà!” (1 Tes 4,13-18; 2 Tes 2,2).
Per questo, c’erano perfino persone che non lavoravano più, perché pensavano che la venuta fosse cosa di pochi giorni e settimane “Lavorare, perché, se Gesù ritornerà dopo?” (2Ts 3,11).
Paolo risponde che non era così semplice come loro immaginavano. E a coloro che avevano smesso di lavorare diceva “Chi non vuole lavorare, non ha diritto di mangiare!”
Altri rimanevano a guardare il cielo, aspettando il ritorno di Gesù sulle nuvole (At 1,11).
Altri si ribellavano perché ritardava la sua venuta (2Pt 3,4-9).
In generale i cristiani vivevano nell’aspettativa della venuta imminente di Gesù.
Gesù veniva a realizzare il Giudizio Finale per terminare con la storia ingiusta di questo mondo ed inaugurare la nuova fase della storia, la fase definitiva del Nuovo Cielo e della Nuova Terra.
Pensavano che questo sarebbe avvenuto dopo una o due generazioni.
Molte persone sarebbero state ancora vive quando Gesù fosse apparso di nuovo, glorioso nel cielo (1Ts 4,16-17; Mc 9,1).
Ma c’erano anche altri che, stanchi di aspettare, dicevano “Non tornerà mai! (2 Pt 3,4).
E allora vegliamo. L’invito del Signore è pressante ed inequivocabile. Egli dopo essere venuto nella storia, avere annunciato il Regno di Dio, avere proclamato il vero volto del Padre, essere morto e risorto, tornerà nella pienezza dei tempi per ricondurre a sé ogni creatura.
Questa è la fede dei discepoli, questa è la ragione per cui siamo come dei servi che attendono il ritorno del padrone nel cuore della notte.
Ed è proprio così che ci sentiamo, come nel cuore della notte, col sonno che pesa sulle nostre palpebre e la stanchezza che ci abbatte.
Una notte profonda in cui il rischio di perdere la fede o di renderla insignificante è reale.
Vegliamo, allora, perché il Signore viene quando meno ce lo aspettiamo.
Vegliamo nella fatica, anche se la notte è fonda e fa paura.
Vegliamo anche quando ci scoraggiamo e pensiamo di esserci sbagliati.
Vegliamo per non farci travolgere dalle cose da fare, dalla crisi economica, da quella delle relazioni e degli affetti.
Vegliamo per non stordirci con le preoccupazioni o le illusioni.
Vegliamo come chi sa che la vita non si consuma tutta qui, che il frammento di eternità che ci troviamo piantati nel cuore non è che una caparra di Dio.
Vegliamo perché la vita è un infinito combattimento, una lotta perpetua contro la dimenticanza di noi stessi e dell’essenziale.
Vegliamo per non cadere vittime dello scoraggiamento generale, della rassegnazione collettiva, del cinismo imperante.
Vegliamo pregando, con una preghiera intensa e feconda, vera e quotidiana, che attinge alla Parola per tradurla nelle scelte di tutti i giorni.
Vegliamo per non cedere: il Signore viene quando meno ce lo aspettiamo.
Viene nella nostra anima e viene alla fine della nostra vita TERRENA, QUANDO ORMAI NON POSSIAMO FAR PIU’ NULLA PER LA NOSTRA ANIMA.
Nella vita spirituale attraversiamo dei lunghi periodi in cui non sentiamo più la sua presenza, in cui abbiamo la triste impressione di essere rimasti da soli.
E il rischio è di fare come il servo malvagio della parabola che si lascia andare alla parte oscura, che non ha più freni, che getta in mare le cose belle e buone che ha imparato dal vangelo.
La nostra fede è messa a dura prova quando non ci accorgiamo più della presenza del Signore, quando non ha più punti di appoggio e LE COSE VANNO MALE.
Ma proprio in quei momenti verifichiamo se la nostra Fede è davvero salda e cosa deve essere purificato del nostro percorso.
Non spaventiamoci, nella notte, ma continuiamo a vegliare nella perseveranza.
Ha scritto, sapientemente, un giornalista, scrittore e poeta, vivente, ERRI DE LUCA:
- “Arrivò senza essere aspettato, venne senza essere stato concepito. Solo la madre sapeva ch’era figlio di un annuncio del seme che sta nella voce di un angelo. …. Solo le donne, le madri, sanno cos’è il verbo aspettare. Il genere maschile non ha costanza né corpo per ospitare attese. Risento l’aggravante di ignorare fisicamente la voce del verbo aspettare. Non per impazienza, ma per mancanza di tenuta.”
Ragioniamoci sopra…
Sia Lodato Gesù, il Cristo!