07.09.2022 – MERCOLEDI’ 23^ SETTIMANA P.A. C – LUCA 6,20-26 “Beati i poveri. Guai a voi, ricchi”.

… il VECCHIO FARISEO COMMENTA…. In illo tempore: dixit Iesus…

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Dal Vangelo secondo LUCA 6,20-26

In quel tempo, Gesù, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti». Parola del Signore

 

Mediti…AMO

Probabilmente non c’è nessuna altra parte dei vangeli che sia stata sottoposta a tante interpretazioni diverse come il brano il discorso in pianura di Luca, meglio noto nella versione matteana del discorso della montagna.

Gesù sale sul monte come un tempo aveva fatto Mosè (Es 32,30-34,2), e in quel luogo solitario ma propizio all’ascolto del Padre prega.

Secondo Luca nei momenti decisivi della sua missione Gesù entra sempre in preghiera, cerca la comunione con il Padre e cerca di discernere la SUA volontà.

Da questa intensa esperienza di ascolto egli matura la sua decisione di chiamare a sé e dunque di scegliere tra i suoi seguaci dodici uomini che saranno da lui inviati (apóstoloi) e avranno come compito la missione di annunciare il regno di Dio insieme a Gesù stesso.

Ecco dunque Gesù scendere dal monte con la sua comunità “istituita”e raggiungere una pianura dove trova molti ascoltatori, tra i quali numerosi malati che chiedono la guarigione e la liberazione dal potere del male (Lc 6,18-20).

Gesù è un vero rabbi, un vero profeta, e molti percepiscono che è abitato da una forza (dýnamis) portatrice di vita.

In questo contesto Gesù vede attorno a sé i suoi discepoli e indirizza loro le beatitudini. Si tratta di un modo di esprimersi ben collaudato in Israele (Is 30,18; 32,20; Sal 1,1; ecc).

I rabbini del tempo di Gesù si servivano spesso della forma letteraria delle beatitudini e delle maledizioni.

Per inculcare i valori sui quali vale la pena costruire la vita dicevano “Beato colui che…”; per mettere in guardia da proposte ingannevoli e illusorie usavano invece l’espressione “Guai a chi si comporta in questo o in quest’altro modo”.

Anche il profeta Geremia – lo abbiamo sentito nella prima lettura – usa lo stesso linguaggio sapienziale, parla di beato e di maledetto.

Le beatitudini nell’Antico Testamento – soprattutto nella letteratura sapienziale – sono quelle indicazioni, quei segnali, che vengono dati da Dio perché l’uomo giunga al traguardo della felicità: «beato l’uomo che non cammina in compagnia dei malvagi e nella strada dei peccatori» (Sal 1,1).

Essendo questo il modo di comunicare impiegato dai vecchi saggi in Israele, non desta meraviglia che nei Vangeli si trovino alcune decine di beatitudini e anche ripetute minacce. Ricordiamo alcune di queste beatitudini:

  • Beata colei che ha creduto” (Lc 1,45);
  • Beato il ventre che ti ha portato” (Mt 12,49);
  • Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli” (Lc 12,37);
  • Beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (Gv 20,29);
  • Quando dai un banchetto invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato” (Lc 14,13-14);
  • Beato chi non si scandalizza di me” (Mt 11,6);
  • Beati i vostri occhi che vedono” (Mt 13,16)…

Bastano queste poche citazioni per evidenziare come, al tempo di Gesù, fosse usuale il ricorso alla beatitudine per veicolare un insegnamento.

In ogni beatitudine è sempre implicata una promessa di intervento da parte di Dio.

Se si seguono le indicazioni, si sarà felici; se si preferisce un’altra strada, iniziano i guai.

I “guai” sono allora delle necessarie “messe in guardia”: non maledizioni, ma “avvisi”, al modo di quelli che davano gli antichi profeti, circa il modo in cui il Regno lavora nel mondo.

E Luca, come detto più volte, riprende in mano la splendida pagina delle Beatitudini in Matteo e la semplifica, aggiungendo alle quattro beatitudini, questi quattro “guai”.

Egli contrappone due stili di vita ribaltando le nostre prospettive. Nella logica del mondo sono beati e fortunati quanti vivono la vita che, invece, Luca vede come disastrosa e foriera di tanti guai.

Non parliamo, ovviamente, di una specie di vendetta da parte di Dio, geloso della riuscita di alcune persone, ma del fatto che, spesso, chi vive in questa vita un’esperienza di sazietà, di benessere, di soddisfazione rischia di spegnere il desiderio, di sedersi sulle proprie conquiste, di sentirsi arrivato.

Non è così: il benessere, dono di Dio e cosa positiva, rischia di anestetizzare il nostro bisogno di assoluto.

Chi invece vive una situazione di disagio, di persecuzione può cadere nella disperazione e nello sconforto.

Oppure fare della propria pena un trampolino per guardare oltre, altrove, più avanti.

Luca sembra descrivere la propria esperienza, sembra guardare all’uditorio di Gesù e alla sua comunità e a noi. Facciamo in modo che le negatività diventino l’occasione di aprirci alla fede!

Ma le Beatitudini sono la carta costituzionale del Regno, il manuale di comportamento del discepolo.

Quasi sempre dimenticate da noi cattolici, che, ancora ben legati al Decalogo del primo testamento, rischiamo di perderci una delle indicazioni più importanti del Signore Gesù.

Oggi di quella pagina leggiamo la stringata versione di Luca che, diversamente da Matteo, riduce le beatitudini da otto a quattro, aggiungendovi, però, quattro “guai” che non sono delle maledizioni (nella Bibbia non esistono formulari di maledizione ma solo di benedizione) ma un monito a chi non vive le indicazioni del Maestro.

Come a dire: io vi indico questa strada per la felicità. Ma se voi vi incamminate dalla parte opposta non la raggiungerete mai.

Inoltre le declina alla seconda persona plurale “voi”. Gesù guarda negli occhi le persone che ha davanti e vede che sono poveri, affamati, scoraggiati, perseguitati e da subito li rassicura, li incoraggia, li ama.

E le sue parole sono dirette, efficaci, toccano il cuore di chi lo ascolta.

E ci fanno capire che siamo contemporaneamente medicanti di senso, e ricchi piedi di SUPERBIA, che pensano di bastare a sé stessi.

Siamo affamati di un valido motivo per cui vivere e allo stesso tempo siamo sazi del mondo CONFONDENDO LA FELICITÀ CON LA SODDISFAZIONE.

Siamo persone che piangono la propria autenticità e siamo dei cinici che ridono con strafottenza pensando CHE LA NOSTRA INDIFFERENZA CI TERRÀ AL SICURO.

Insomma, siamo l’uno e l’altro, ma possiamo decidere noi da che parte stare: se stare dalla parte dei “beati”, oppure stare dalla parte dei “guai”. LA VITA NON DECIDE AL POSTO NOSTRO.

Il cristianesimo mette radice nella nostra debolezza, nelle nostre mancanze, nei nostri fallimenti MA NON PERCHÉ SI PONE COME SOLUZIONE O CONSOLAZIONE, MA PERCHÉ L’AMORE DI DIO SA PORRE FIDUCIA LÌ DOVE NESSUNO LA RIPORREBBE MAI, COMPRESI NOI STESSI.

La beatitudine cristiana consiste nel lasciarsi amare proprio lì dove ci sentiamo più perdenti, più fragili, più falliti.

È far entrare Dio nella nostra miseria prima ancora di risolverla. È permettere a Dio di manifestarsi nella nostra debolezza più ancora che nella nostra autosufficienza. Beato non è chi sa tirarsi fuori dai guai da solo, ma chi si lascia tirare fuori dal Suo Amore.

E due parole le voglio spendere sul concetto di povertà, che essenzialmente non si riferisce al danaro o alle ricchezze terrene.

Povero in senso evangelico è colui che, illuminato dalla parola di Cristo, dà ai beni il loro giusto valore.

Li apprezza, li stima, sa che sono un dono di Dio, ma proprio perché sono un dono non se ne appropria, capisce che non gli appartengono, si rende conto di essere solo un amministratore e li investe in conformità ai progetti del padrone. Tutto ha ricevuto in dono, tutto trasforma in dono.

Povero in senso evangelico è colui che non possiede nulla per sé, che rinuncia a adorare il denaro, rifiuta l’uso egoistico del proprio tempo, delle proprie capacità intellettuali, dell’erudizione, dei diplomi, della posizione sociale…

È colui che si fa simile al Padre che sta nei cieli il quale, pur possedendo tutto, è infinitamente povero perché non trattiene nulla per sé, è dono totale.

L’ideale del cristiano non è l’indigenza, ma un mondo di poveri evangelici, un mondo in cui nessuno accumula per sé, nessuno sperpera, ognuno mette a disposizione dei fratelli tutto ciò che ha ricevuto da Dio.

Beati voi poveri!” NON È UN MESSAGGIO DI RASSEGNAZIONE, MA DI SPERANZA, SPERANZA IN UN MONDO NUOVO DOVE NESSUNO PIÙ SIA BISOGNOSO (At 4,34).

La promessa che accompagna questa beatitudine non rimanda ad un futuro lontano, non assicura l’entrata in paradiso dopo la morte, ma annuncia una gioia immediata: “Vostro è il regno di Dio”.

Dal momento in cui si sceglie di essere e di rimanere poveri, si entra nel “regno di Dio”, nella condizione nuova.

Chi rifiuta di adeguarsi ai principi che dominano in questo mondo – quelli dell’egoismo, della competizione, della sopraffazione, della ricerca del proprio interesse – viene combattuto e messo al bando come pericoloso per l’ordine stabilito.

Il mondo antico non si rassegna a scomparire, NON ACCONSENTE DI CEDERE IN MODO PACIFICO IL PASSO AD UNA SOCIETÀ FONDATA SUI PRINCIPI DEL DONO GRATUITO, DELLA DISPONIBILITÀ AL SERVIZIO DISINTERESSATO, DELLA RICERCA DELL’ULTIMO POSTO.

Chi opta per questo mondo nuovo si pone in contrasto con la mentalità condivisa dai più e subito viene isolato e perseguitato.

L’approvazione e il consenso degli uomini è un segno negativo.

La persecuzione è il destino che da sempre accomuna tutti i giusti: così sono stati trattati i profeti dell’AT.

Coloro che non compiono questo passo decisivo continuano a ragionare secondo la logica terrena, hanno il cuore legato alle ricchezze che possiedono e ripongono in esse le loro speranze di felicità. ESSI PURTROPPO NON SONO LIBERI… NON SONO ANCORA BEATI.

Chi rende culto al conto in banca e alla carriera, chi pensa al proprio interesse, si perde dietro le lusinghe e le seduzioni dalle ricchezze, accumula per sé e sperpera, mentre altri piangono e muoiono di fame, costui è “maledetto”.

Non che Dio lo odi o lo punisca, È “MALEDETTO” PERCHÉ HA FATTO LA SCELTA SBAGLIATA. E AUTONOMAMENTE -DA SOLO- PER SCELTA PERSONALE, si è collocato fuori del “regno di Dio”.

Riceve sì le lodi e i complimenti degli uomini, ma non quelli di Dio.

Tutto questo non ci fa vivere come figli di Dio e non ci fa diventare discepoli di Gesù.

Fratelli e Sorelle, vedere la beatitudine nella povertà e nella fame non ci lascia comunque tranquilli o senza dolore.

La fede, la fiducia in Dio, come scrive Alessandro Manzoni, negli “SPOSI PROMESSI”, non basta a tenere lontani i problemi: piuttosto «li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore».

Renzo e Lucia si convincono che anche le sventure possono essere provvidenziali e più sopportabili, se affrontate con l’aiuto della fede in Dio, e che possono essere utili per una vita migliore. Una vita che sia aperta agli altri e non chiusa in un’ottica egoistica. Nella consapevolezza che la vita sulla terra è intrisa di sofferenza e che su di essa il male incombe costantemente.

Ma quando vediamo l’altro nel bisogno, ci dobbiamo sempre domandare perché: quelli che oggi hanno fame e piangono, probabilmente lo sono anche a causa di coloro che ora sono saziati e ridono.

Il Vangelo di oggi nel pensiero dei Padri della Chiesa

  • Luca con le sue quattro beatitudini tratta delle virtù cardinali. Beati i poveri infatti, perché si sottraggono alle lusinghe del mondo con la temperanza. Beati gli affamati, perché ammoniti dalla propria fame sul dovere di compatire chi ha fame, sono anch’essi compatiti e soccorsi per opera della giustizia. Infatti l’elemosina, con cui non doniamo a Cristo i nostri beni, ma gli restituiamo i suoi, è a ragione definita giustizia dal salmista che dice: Egli dona largamente ai poveri, la sua giustizia rimane per sempre (Salmo 112.9). In effetti la giustizia è ciò per cui riconosciamo a ciascuno il suo, anche se non dobbiamo niente a nessuno, tranne il vicendevole amore. Beati quanti sanno compiangere ciò che è effimero e anelare ai beni eterni, discernendo fra il bene e il male mediante la prudenza. Beati quelli che riescono a sopportare qualsiasi avversità con la fortezza data loro dalla fede (Beda in Venerabile, nel Commento a Luca, 2.23).
  • Il cristiano non deve temere e stare in ansia in mezzo alle difficoltà, lasciandosi distrarre dalla fiducia in Dio: deve anzi confidare, sentendo il Signore presente; sentendo che egli governa tutto ciò che lo riguarda e gli dà forza contro tutti, e che lo Spirito Santo gli insegna anche ciò che deve rispondere agli avversari (Basilio di Cesarea, nelle Regole Morali, 63).
  • La ricchezza, a mio avviso, è simile a un serpente; se uno non sa prenderlo a distanza, senza farsi del male, senza pericolo, sospendendo la bestia per l’estremità della coda, questa si avvicinerà alla mano e la morderà… Non chi ha e chi conserva, ma chi dà agli altri è ricco; condividere con gli altri, non possedere fa felice l’uomo… Ricchezza vera è la giustizia (Clemente Alessandrino, nel Pedagogo, 7,35-36).

Ragioniamoci sopra…

Prega il Signore per me… Fratello che Leggi…

Sia Lodato Gesù, il Cristo!